Il Riformista 2 aprile 2011
Oltre il conflitto, un nuovo modello sociale
Pier Paolo Baretta e Tiziano Treu
Le parti sociali ,sindacati e imprese, dovrebbero incontrarsi nei prossimi giorni per affrontare i punti più controversi, in particolare con la CGIL, delle nostre relazioni industriali: le regole sulla rappresentatività del sindacato e la struttura della contrattazione. Dovrebbero essere consapevoli, ce lo auguriamo, che non bastano piccoli aggiustamenti al sistema attuale. Questo ha difetti gravi che vanno corretti. Il nostro sistema non è all’altezza della sfida posta dalla crisi e dalla globalizzazione.
Non aiuta a risolvere i problemi di competitività delle aziende, che anzi lo vedono come un ostacolo alla flessibilità e alla modernizzazione; non tutela adeguatamente i lavoratori occupati nei loro salari (fra i più bassi d’Europa); non offre prospettive di buona occupazione, né di tutela sufficienti ai troppi lavoratori precari, specie giovani, che aspettano ormai da anni di entrare nel mercato del lavoro e di restarvi stabilmente.
Non sono difetti da poco. Si impone a tutti una riflessione più profonda sui cambiamenti necessari.
Il sistema sindacale, disegnato dalla nostra Costituzione, prevedeva una forte regolazione della rappresentanza collettiva e della contrattazione (all’art.39) e indicava all’art. 46 e all’art. 99 l’obiettivo della partecipazione dei lavoratori nell’impresa e nell’economia. L’impianto costituzionale è stato subito accantonato, anche perché aveva tratti troppo rigidi, lasciando spazio ad (ed è stato sostenuto da) un pluralismo conflittuale poco regolato. Questo ha permesso uno sviluppo delle Relazioni industriali largamente autonomo, in particolare la crescita della contrattazione come strumento di regolazione dei rapporti di lavoro; ma ha provocato forti tensioni conflittuali fra le parti, nonché discontinuità di funzionamento nei vari periodi storici.
La crescita e il merito del modello pluralistico conflittuale sono stati sostenuti dalla lunga stagione di sviluppo economico che ha caratterizzato il dopoguerra, non solo in Italia. Le grandi trasformazioni, le crisi succedutesi negli ultimi anni, fino a quella ancora in corso, non permettono di continuare così.
Il nostro è l’unico sistema, fra quelli dei paesi a noi vicini, che non garantisce né la rappresentatività degli agenti contrattuali, né la tenuta delle scelte contrattuali in caso di contrasto fra gi attori e neppure il rispetto degli accordi stipulati. Definire regole precise, contrattuali se possibile, altrimenti legislative, su questi punti, è una prima urgenza per dare credibilità alle nostre relazioni industriali.
In realtà crisi e globalizzazione mettono in discussione non solo le regole formali delle Relazioni Industriali, ma l’intero assetto dei rapporti economico sociali consolidati nel secolo scorso.
Chi riconosce la radici strutturali della attuale crisi, avverte la necessità di ridiscutere i fondamentali del sistema, cioè la qualità del nostro capitalismo; di verificare nel nuovo contesto mondiale i caratteri che esso ha assunto nelle due varianti principali note al mondo occidentale: quella anglosassone o quella renana o, come si dice, di economia sociale di mercato.
Siamo convinti che questa discussione è necessaria e tocca da vicino il futuro anche delle Relazioni Industriali.
Il nostro sistema è più inadeguato di quelli europei perché è rimasto a mezza strada fra contrattazione e conflitto e tentativi incompiuti o deboli di partecipazione; come tutti i sistemi ibridi è il più esposto ai colpi della crisi.
Naturalmente la scelta da compiere non riguarda solo le relazioni industriali. Il successo del modello renano e dell’economia sociale di mercato, dipende da fattori più ampi: dalle politiche pubbliche di indirizzo dell’economia , dalla allocazione delle risorse, dai caratteri del welfare universalistico e in generale dagli obiettivi e dalla qualità dello sviluppo. Ma le relazioni industriali sono una parte importante del sistema. L’impostazione partecipativa ha contribuito in modo significativo alla capacità del sistema tedesco di affermarsi, prima come colosso industriale ed economico, ed ora di reagire alla crisi e di riprendere a crescere. Il nostro pluralismo senza regole e conflittuale, se non viene corretto, è destinato a essere sempre meno funzionale o addirittura un ostacolo alla crescita.
Per questo è importante che il dibattito sulla crisi metta a fuoco, oltre alla questione delle regole su rappresentanza e contrattazione collettiva, anche il tema della partecipazione e della democrazia economica. E occorre inquadrare tale dibattito entro una discussione più ampia sul modello sociale da perseguire: per quanto ci riguarda è quello ispirato all’economia sociale di mercato.
Se tale discussione non vuol essere strumentale, come fa la nostra destra, occorre domandarsi in che modo i criteri di socialità possono influire veramente dall’interno sui meccanismi di funzionamento del mercato; per orientarli a obiettivi di solidarietà ed equità sociale, di sviluppo equilibrato e non speculativo, misurato dalla crescita delle persone e delle comunità.
La nostra Costituzione indica questa strada in generale nell’art. 3,2, per quanto riguarda l’iniziativa economica privata nell’art. 41, e per quanto riguarda il ruolo del lavoro nell’impresa nell’art. 46. Chi dice di volere un’economia sociale deve attuare e non cambiare l’art. 41, ove si stabilisce che l’iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Così deve dare seguito a forme di partecipazione e di democrazia economica adeguate al senso dell’art. 46 nel contesto attuale.
Non esistono formule preconfezionate per dare concretezza a un sistema di economia sociale.
Le stesse formule elaborate nella patria del modello renano sono in continua evoluzione. Lo nota Romano Prodi in un recente scritto nella rivista il Mulino (n.1, 2011, p. 109) rilevando come il sistema tedesco abbia inglobato tratti del sistema finanziario anglosassone, ma abbia accompagnato le trasformazioni del sistema produttivo con il metodo partecipativo che ne ha garantito le migliori perfomance in Europa, anche nella crisi.
Non si tratta di copiare modelli, ma di innovare le nostre strutture economiche e le relazioni industriali nelle direzioni che hanno ispirato le migliori esperienze europee.