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16.4.10

Il post voto regionale in Veneto

16/04/2010
Padova - Direzione Regionale Partito Democratico Veneto
Relazione di Rosanna Filippin


La nuova geografia dei rapporti di forza politici, a livello nazionale, che esce dalle urne è segnata da una ritirata politica di massa.
Le elezioni Regionali del 28 e 29 marzo sono state l'appuntamento elettorale meno partecipato della seconda Repubblica, quindi le elezioni meno partecipate in assoluto.
Rispetto alle precedenti Regionali 2005 sono quasi 3 milioni in meno i votanti.
Rispetto alle Politiche del 2008 sono otto i milioni le persone che, nelle 13 regioni che sono andate al voto, hanno deciso di stare a casa e di non partecipare a questa competizione. Un elettore su tre ha scelto di non andare a votare.
Parte degli astenuti di oggi rientreranno in occasione di prossime consultazioni di "primo ordine", come le politiche. Infatti, è ormai diffuso un comportamento di voto intermittente. I cittadini, a seconda della posta in gioco, decidono di volta in volta, prima ancora cosa votare, se andare a votare.
Ma la disaffezione alla politica, a questa politica , chiede a tutti, noi per primi, un cambio di rotta.

Non ritornerò sui dati nazionali e locali, già sviscerati dall’analisi del dott. Comodo. Credo che compito di questa direzione regionale, oggi, sia quello di leggere le lezioni politiche insite in questi dati, fare un bilancio del lavoro di questi mesi e, soprattutto, tracciare una rotta per il futuro.

Quella subita dal centrosinistra in Veneto è una sconfitta netta: sostanzialmente annunciata, anche se non nelle sue proporzioni definitive.
Le sconfitte servono quando si è in grado di interpretarle. Quindi il nostro primo compito è di riconoscerle e analizzarle senza finzioni e senza scuse. Perché la verità è la prima forza di una proposta politica.
I dati ci dicono che gli elettori che hanno scelto il Partito Democratico alle elezioni politiche e alle europee quest’anno hanno deciso in un numero significativo di casi di restare a casa. Il nostro elettorato non ha percepito le elezioni regionali come una sfida decisiva. Non ha considerato il passaggio del Veneto alla Lega come una minaccia tale da motivare la mobilitazione.
Questo è il primo dato politico su cui riflettere. Perché significa che l’offerta politica leghista non ha soltanto convinto una larga fetta di elettorato moderato prima orientato col Pdl. È percepita come “normale” ormai anche da una parte di elettorato politicamente schierato col centrosinistra.
Il risultato è che in 3 su province su 7 il Pd è sotto il 20% e pesa meno della metà della Lega. In 5 province su 7 è sotto il 25%.

Dobbiamo chiederci perché. E la risposta ovviamente non è una sola.
In una battaglia il morale conta: ed è evidente che il Partito Democratico e il centrosinistra non sono mai riusciti non dico ad invertire, ma nemmeno ad incrinare la percezione di una partita chiusa in partenza a favore della Lega.
Quelli che a volte interpretiamo come punti di crisi o segnali di difficoltà della coalizione di centrodestra a livello nazionale non hanno sostanziali ricadute a noi favorevoli sul piano locale.
Contano i rapporti di forza. Quelli di una regione che nella stagione bipolare ha sempre saldamente scelto il centrodestra nel voto politico. In cui la coalizione di centrosinistra, non solo non è riuscita ad agganciare a livello regionale l’accordo con l’Udc, che pure non avrebbe modificato l’esito finale della partita, ma nemmeno è riuscito a presentarsi con tutte le sue liste, lasciando a casa i radicali e, tranne una provincia, la Liga Veneto Autonomo.
Contano anche i rapporti di forza sul piano delle risorse in campo. Malgrado l’investimento fatto dal nostro partito, superiore a quelli delle sfide affrontate in passato, i nostri avversari hanno probabilmente mobilitato risorse da tre a quattro volte più alte.
E ovviamente contano i tempi. Con una candidatura messa in campo 64 giorni prima del voto. E con una stagione congressuale che possiamo dirsi chiusa appena 100 giorni prima del voto, con l’elezione degli organismi dirigenti avvenuta il 12 dicembre: quasi il simbolo, certamente involontario, di un Partito che rischia di essere assorbito dalle proprie dinamiche interne più che dalla costruzione di un’offerta politica verso il territorio.

Il risultato finale ha confermato quasi alla lettera i rapporti di forza registrati in un sondaggio realizzato a gennaio. La campagna elettorale non è riuscita ad invertirlo. E, considerando le premesse, con il senno di poi lo si può quasi considerare come un risultato scontato.

Il Partito Democratico del Veneto ha condiviso il tentativo di chiudere l’accordo con l’UDC, il tentativo non solo di aumentare la forza della coalizione e diminuire la differenza fra i due contendenti ma di avvicinarci a quella larga parte di elettorato, c.d. moderati, che orfani di Galan – ormai definitivamente esautorato dalla carica di governatore - potevano trovarsi a disagio in un centro destra a trazione leghista.
Combattere il modello politico della Lega, il Veneto ripiegato in se stesso, chiuso, volto al passato, pronto a coltivare le paure ed attribuire le colpe del proprio malessere, economico e sociale, all’altro o al diverso di turno, le promesse mancate, il federalismo privo di reale contenuto spacciato per soluzione o risposta ad ogni problema ….
Questa era la strada comune da percorrere, anche con l’UDC.
Insieme agli altri partiti del centrosinistra.
La coalizione più ampia possibile, più competitiva possibile.
Per combattere la Lega ed il suo candidato Presidente.
Per arginare la deriva.


A questo tentativo abbiamo dedicato 4 settimane.
Poche ? Tante ? Non avremmo nemmeno dovuto provarci ?
Eppure un accordo politico - amministrativo a Venezia si è trovato e questo è stato utile per la vittoria finale di Orsoni.
E lo stesso è accaduto in altro comuni dove si è votato nel 2010.

In Regione non ci siamo riusciti. Perché alla fine all’Udc è mancato il coraggio di aprire su scala regionale una nuova stagione nei rapporti con noi. Ma il risultato di Venezia è un dato da cui partire, per la futura politica delle alleanze nelle autonomie locali.


Decaduta la possibilità di un accordo con l’Udc, il Partito Democratico ha scelto tra due alternative, entrambe assolutamente degne e legittime: Laura Puppato e Giuseppe Bortolussi. Ha scelto questa direzione, con un dibattito aperto e un voto segreto. Come vogliono le regole della democrazia.

Abbiamo scelto Giuseppe Bortolussi. Abbiamo scelto di parlare di economia, di fisco, di piccola e media impresa. Abbiamo scommesso sulla possibilità di rivolgerci al Veneto intero. Non siamo riusciti a farlo.
Ho condiviso, come la maggioranza di questa direzione regionale, la scelta di candidare Giuseppe Bortolussi. Una figura significativa, che potrà fare ancora molto, in Consiglio Regionale, per dare un segno di concretezza all’opposizione del centrosinistra alla giunta di Luca Zaia.

Dobbiamo riflettere con onestà. C’è chi pensa che il Pd abbia pagato un prezzo troppo alto all’idea che la campagna di un candidato potesse essere condotta condotta politicamente a spese del partito, della sua riconoscibilità e visibilità.
Può essere sicuramente una delle riflessioni da fare. Ed è anche per questo, oltre che per il principio sacrosanto di riconoscere il merito e i risultati ottenuti nella prova dell’urna, che ho condiviso e raccomandato la scelta di affidare a Laura Puppato la guida del nostro gruppo in Consiglio Regionale.

Ma il problema del nostro risultato non può ridursi alla questione del candidato e delle alleanze. C’è un problema è più profondo. E non è solo un problema veneto, se è vero che il Pd, nel Nord, ha ottenuto risultati negativi a prescindere dalla formula con cui si proponeva: come forza di governo in cerca di riconferma, come in Piemonte, come forza di opposizione che spendeva nella sfida un suo dirigente di primo piano, come in Lombardia, o come forza di minoranza che investiva su una personalità della società civile, come accaduto in Veneto.
Il problema di fondo, è la riconoscibilità della nostra identità e la sua credibilità agli occhi degli elettori. È la tenuta del nostro radicamento elettorale anche in quelle regioni dove tradizionalmente siamo più forti.

Il risultato della Lega è il segno di un ciclo politico diverso, è il segnale di un processo che viene a maturazione, ma che parte da lontano.

Vorrei citare alcuni passi di un’analisi di Ilvo Diamanti pubblicata di recente su Repubblica, che mi pare colga il punto

La Lega, scriveva Diamanti è un “partito di governo e di rivendicazione - se non più di lotta. … forte nel Nord perché governa a Roma. E viceversa”, è un partito che “ha superato i confini padani … Esprime il sindaco di 355 comuni e il presidente di 14 province. E da oggi anche di due regioni. Alle elezioni europee del 2009 si è imposta come primo partito in oltre 1000 comuni (su quattromila) del Nord”.
La Lega “ha nazionalizzato il suo programma. I suoi obiettivi. Ha puntato sulla sicurezza, o meglio: sull'insicurezza. Ha drammatizzato le paure”, ma ha anche “dissociato il linguaggio dalle pratiche. Ha promosso le ronde senza poi organizzarle. Ha agitato la xenofobia, permettendo l'integrazione nelle zone dove governa. … Ha usato il doppio pedale dell'identità e del pragmatismo”.

Sfidare e incalzare la Lega sui temi che contano per i cittadini del Veneto? Certamente è possibile farlo, ma per essere credibili come alternativa non è sufficiente proclamarsi tali.

Sviluppo, fisco, federalismo, servizi, ambiente, futuro, cambiamento, sicurezza, affidabilità. La Lega è riuscita a interpretare queste parole d’ordine.

E se vogliamo ristabilire una sintonia con questa nostra terra, noi abbiamo bisogno di alcuni strumenti.

Ci servono antenne precise e lenti adatte per leggere la realtà. Non possiamo immaginarci una società e le sue aspirazioni a nostra immagine e somiglianza. Dobbiamo per certi versi fare un percorso inverso. Possiamo competere con la Lega sul piano delle risposte, ma prima dobbiamo saper ascoltare le domande, senza fraintenderle.

Ci servono radici vive e gambe allenate. Più attivismo politico, più attività organizzata, più investimento sulla costruzione di reti organizzative e di relazioni sociali sul territorio e con i gruppi portatori di interessi e sensibilità. I circoli sono fondamentali, ma non solo per parlare tra di noi. Devono essere porte da e verso la società.

Ci servono parole nuove, anche per liberarci da qualche cliché inutilmente consolatorio.

Quello sulla Lega partito della paura, ad esempio. Non è più solo questo. Ormai la Lega è anche il partito delle risposte.

Quello sul rapporto col territorio. Ci sono province dove abbiamo più circoli della Lega, ma questo non cambia il dato di una nostra capacità di proposta nettamente più alta nei centri urbani che nei piccoli comuni. Non esiste un territorio, i territori sono molti e diversi.
Se vogliamo invertire una tendenza, dobbiamo capire dove dobbiamo concentrare le risorse e le energie. Dobbiamo creare circoli nuovi dove siamo più deboli? Possono essere degli incubatori di consenso e di radicamento? Possiamo arrivare a far corrispondere i circoli a dei luoghi fisici?


Ci serve un partito all’altezza dei tempi. E possiamo dire di avere, comunque, un patrimonio da cui ripartire:
- Il popolo delle primarie, quasi 180 mila veneti che hanno aderito con passione alla consultazione dello scorso autunno.
- I nostri eletti, anche in Consiglio regionale, dove oggi il Pd ha un gruppo ampiamente rinnovato, che si è subito ritrovato sulla scelta di Laura Puppato, che considero un’investimento fatto per il futuro del Pd Veneto.
- I nostri amministratori, che sono stati capaci, anche in anni difficili per il nostro partito, di costruire, nei fatti e non a parole, il modello di un Pd capace di vincere. Orsoni a Venezia, come prima Zanonato a Padova, Variati a Vicenza, MArchioro a Rovigo. Ma anche, Boschetto a Lonigo e Bertoncello a Portogruaro, candidati vincenti anche nel Veneto verde dominato da Luca Zaia.

Ma se vogliamo cambiare passo, dobbiamo riflettere sul fatto che, oggi, l’identità del Pd è una contraddizione: tra ciò che ambisce ad essere e ciò che è in realtà.

Condivido l’ipotesi di partito uscita dalle primarie, ma la considero un traguardo da raggiungere, un edificio che è ancora in gran parte da costruire o ricostruire:

Non siamo più un partito davvero popolare, se per questo si intende una forza che sa rivolgersi con trasversalità alle figure sociali.
Non siamo in questa fase percepiti come i portabandiera del riformismo, vessillo che ormai la Lega presidia come proprio. D’altronde tra i giovani fatichiamo a essere punto di riferimento.
Non siamo un partito capace di parlare davvero alle donne, segmento elettorale dove più forte è il consenso per il centrodestra.
Non siamo in senso pieno il partito dei lavori, perché ci mancano legami sociali autentici con le forme contemporanee dei ceti produttivi: le nuove professioni, i giovani precari, le piccole e micro imprese., Noi siamo il partito dei lavori e dei ceti produttivi. Vogliamo tornare nei luoghi in cui si fatica e si produce, ascoltare chi intraprende e chi rischia in proprio.
Ci proponiamo come alfieri dell’ambiente, della sussidiarietà e dei territori, ma gli interessi del territorio hanno cercato e trovato in altri, qui al Nord, la propria rappresentazione.

Anche perché la nostra identità è un cantiere ancora aperto. Da riempire di contenuti, da costruire. Come? Con scelte capaci di costruire meccanismi di identificazione e riconoscimento. Con innovazioni nel nostro linguaggio e nelle parole che ci rappresentano davanti agli elettori.

Sembra una strada astratta, ma non lo è. Rischia di esserlo molto di più, io credo, una sterile discussione sui feticci verbali e organizzativi. Come quelle che si ripropongono ad ogni sconfitta elettorale, puntuali come le piogge d’autunno: la diatriba tra partito leggero o pesante, le speculazioni sui coordinamenti del Nord, le contrapposizioni tra popolo degli iscritti e delle primarie.

Intendo dire che per avere davvero senso, la scelta del partito federale o la suggestione del Partito del Nord non può ridursi ad un escamotage organizzativo. L’identità viene prima. Perché non riguarda il nostro passato o il nostro presente. Ma il nostro futuro.

14.4.10

PD del Nord:Puppato rilancia l'idea di Cacciari, tra i distinguo di Zanonato

la Nuova Venezia 14 aprile 2010
Puppato: Pd del Nord per non morire


VENEZIA. Laura Puppato: «La nascita del Pd del Nord è una questione di sopravvivenza per i democratici». Massimo Cacciari: «Serve una struttura autonoma al Nord con una chiara leadership di Sergio Chiamparino, altrimenti è questione di mesi e il Pd sarà finito. Morto». «Un partito settentrionale autonomo? No, nel Pd che vogliamo ci sono tutti i territori, anche il Nord»: parole di Pierluigi Bersani, pronunciate a latere del faccia a faccia con i segretari regionali.
Così, dal dialogo a distanza tra la capogruppo al consiglio veneto, il filosofo progressista di Venezia e il segretario nazionale, emerge una conferma: la sfida per rifondare il Pd, secondo una fisionomia federalista e territoriale, non sarà indolore e il suo esito finale appare quanto mai incerto. Né il susseguirsi di sconfitte elettorali sembra accelerare i tempi del cambiamento. Anzi, chi solleva con decisione la questione - è il caso del “padre nobile” Romano Prodi che ha suggerito di affidare l’elezione del leader ai comitati regionali, esautorando di fatto il gruppo dirigente romano - raccoglie perlopiù dissensi e reazioni stizzite.
Certo, i fautori della svolta evitano la polemica diretta: «Il Pd federalista non è un fine ma uno strumento», premette Laura Puppato «l’obiettivo è radicarci tra la gente, essere più vicini alle esigenze della comunità. E’ questo che vogliamo, non certo creare difficoltà a Bersani che ha appena iniziato un percorso e sta lavorando bene. Però dobbiamo cambiare e non c’è più tempo da perdere». Il sindaco uscente di Montebelluna non si limiterà ad attendere gli eventi: «Faremo squadra, con Cacciari e Chiamparino ci siamo già sentiti, crediamo fortemente in questo progetto e a Roma diventerà sempre più difficile dirci no».
Per caso, incombe una spada di Damocle sul segretario veneto del partito, rea di averle preferito Giuseppe Bortolussi in sede di nomination elettorale? «No, che io sappia, anzi invito Rosanna Filippin a lavorare con serenità e a lavorare molto, perché qui c’è tanto da fare... ».
E Flavio Zanonato? Il sindaco di Padova, tra i pochi superstiti dell’ondata verde nelle regioni padane, riconosce l’esigenza di cambiamento interno ma non condivide la proposta prodiana: «E’ vero che al vertice del Pd ci sono atteggiamenti autoreferenziali e credo anche che una certa visione “romana” debba lasciare spazio alla pluralità delle esperienze e delle culture del Paese. Ma affidare ai segretari regionali la scelta del leader nazionale, mi sembra un’idea astratta. Qualcuno deve reggere il timone e assumere la guida di un progetto condiviso: la politica non nasce per germinazione spontanea, richiede il coinvolgimento di chi vive e opera nel territorio». Cosa non la convince nel Pd del nord? «Un partito conta se è nazionale, non se si rinchiude nell’isolamento in periferia. Perfino la Lega è diventata davvero influente quando è entrata nel Parlamento, nelle istituzioni e nel Governo, superando la frammentazione dispersiva. Vede, l’idea di una federazione di tanti partitini mi sembra una scorciatoia, è come se non riuscendo a vincere lo scudetto in serie A ci inventassimo un titolo locale per poi proclamarci campioni». C’è il rischio che un’ala democratica, quella nordista, entri in rotta di collisione con il «centralista» Bersani: «Per carità, un anno fa l’abbiamo eletto alle primarie con due milioni e mezzo di voti, non possiamo ricominciare da zero solo perché lo dice Prodi. Io non condivido il polverone che sollevato su ogni questione, con appelli, petizioni, tam tam su Facebook. Il partito democratico non può diventare la versione moderata di Grillo: dividere l’opinione pubblica tra tifoserie contrapposte equivale a cristallizzare le posizioni attuali perché non si è mai visto un ultrà juventino diventare interista o viceversa. Noi abbiamo bisogno di modificare la dinamica del consenso non di radicalizzarne gli equilibri attuali».
- Filippo Tosatto