Partito Democratico Veneto
Direzione regionale – Relazione di Rosanna Filippin
Treviso, 18 settembre 2010
La nostra riunione odierna cade in un momento delicato e decisivo per la vicenda politica nazionale.
A poco più di due anni dal voto che ha consegnato al centrodestra una netta vittoria elettorale, è tutto lo scenario politico che si è rimesso in movimento, con una dinamica di cui va compresa anche la natura paradossale.
Con una rapidità anche maggiore rispetto a quello che forse noi stessi avremmo immaginato, l’eclatante affermazione della Lega al Nord ha determinato una modifica degli equilibri complessivi del centrodestra: al Nord il Pdl è costretto a rincorrere il partito di Bossi, mentre al Sud è spinto a cercare di contrastare le rivendicazioni nordiste con una reazione sudista di segno uguale e contrario.
Rispetto a quando, com’era capitato nel 2001, Berlusconi era riuscito a contenere la Lega sulla soglia dello sbarramento elettorale, è cambiato un mondo.
La scelta di autonomia di Fini nei confronti di Berlusconi è figlia di questa stessa situazione. Fini si smarca da Berlusconi anche per reagire al rapporto privilegiato tra Lega e Cavaliere, dove Bossi conta sempre di più.
Di fatto, senza che nemmeno si sia aperta una crisi di governo, queste evoluzioni nel campo del centrodestra ci dicono una cosa: il progetto politico nazionale di Silvio Berlusconi si è esaurito.
E non è un caso che per la prima volta il premier tema il voto: perché tema al nord la concorrenza di Bossi e al sud quella di Fini.
Dopo sedici anni di presenza sulla scena e dopo aver governato per otto degli ultimi dieci anni, la parabola politica dell’imprenditore d’Italia è giunta ad un punto di crisi se non di vero e proprio fallimento.
Basta ripercorrere le promesse che il Cavaliere ha disseminato lungo il suo cammino politico per rendersene conto.
Berlusconi aveva promesso meno tasse per tutti.
Oggi l’Italia ha un’evasione superiore al resto d’Europa, ma il carico fiscale è uno dei più alti del continente.
E grava soprattutto sul reddito di chi lavora, a cui lo Stato italiano offre, “in cambio”, pure una delle spese sociali procapite più basse dell’eurozona.
Il fisco era l’obiettivo numero 1 di Berlusconi. E’ stato la sua prima e simbolicamente più forte promessa.
Bene, su questo Berlusconi ha fallito.
Berlusconi aveva promesso un paese più moderno.
Ovunque nel mondo la modernizzazione di un paese passa da scelte coraggiose.
E da investimenti sulla formazione, la ricerca e l’innovazione. Lo confermano le scelte di due conservatori come la Merkel e Cameron. Peccato che abbia più punti in comune con loro il democratico Obama che il nostro premier.
Anziché investire sul futuro e sui giovani, in Italia si tagliano risorse e personale alla scuola e all’università, si svaluta il ruolo della ricerca, si ignorano le opportunità della green economy.
E mentre la crisi economica richiede un ruolo attivo dei governi, in Italia il Ministero dello Sviluppo economico è gestito ad interim. Come se della crisi ci si potesse occupare nei ritagli di tempo.
Un paese più moderno? Anche su questo, Berlusconi ha fallito.
Berlusconi aveva promesso una riforma federalista dello Stato.
Dopo aver perso cinque anni con le chiacchiere leghiste sulla devolution, oggi la riforma federalista si rivela per quello che è: una bandiera senza contenuti, una cassaforte vuota, una propaganda smentita dai fatti.
Le promesse sull’autonomia impositiva e sulla partecipazione al gettito vengono rinviate al 2016, mentre i tagli alle risorse degli enti locali sono già realtà.
Un federalismo all’incontrario che ha tagliato 14 miliardi di euro al sistema delle autonomie regionali e locali e solo 3 miliardi di euro allo stato centrale.
Abbiamo spesso denunciato che si tratti di tagli alla cieca.
Perché i virtuosi pagano come e più degli spreconi. Forse è sbagliato dirlo.
Perché Tremonti e Bossi ci vedono benissimo.
Tagliano le risorse ai Comuni e alle regioni del Nord, ma poi accettano senza fiatare la leggina su Roma capitale.
Una distribuzione più equa delle risorse tra centro e territori. Sarebbe stata una riforma vera.
Ma anche su questo, Berlusconi ha fallito.
Berlusconi aveva promesso una riforma delle istituzioni nel senso della stabilità.
Va dato atto a Berlusconi di essere stato uno dei principali responsabili dell’evoluzione in senso bipolare della politica italiana. Considero questa evoluzione uno dei risultati positivi dell’ultimo quindicennio.
Peccato però che, in assenza di riforme istituzionali serie e condivise, anche questo risultato oggi sia messo in pericolo.
Una legge elettorale sbagliata ha stimolato la formazione di alleanze elettorali disomogenee.
Oggi il carisma di Berlusconi non è più sufficiente.
Ed è così che le cronache politiche e parlamentari di questi mesi e delle prossime settimane diventeranno sempre di più un revival di riti e movenze tipici della prima repubblica: riecco la paura dei franchi tiratori, il mercato delle vacche sui senatori e deputati, e governi che, in momenti di emergenza sociale ed economica, navigano a vista….
Istituzioni funzionanti per un paese più europeo, regole condivise per un’alternanza produttiva tra schieramenti alternativi.
Anche questo sarebbe stato un traguardo importante.
Anche questo, invece, è un obiettivo fallito dalla parabola politica del Cavaliere.
Le divisioni nel campo del centrodestra stanno paralizzando l’azione di governo. E si capisce l’insoddisfazione delle rappresentanze sociali verso questo esecutivo così poco incisivo. D’altra parte, nella misura in cui accelerano la fine di una fase politica, il chiarimento di un equivoco, queste divisioni sono il segno di una crisi politica che rappresenta anche un’opportunità.
Dipende da noi, soltanto da noi, riuscire a coglierla, per fare della crisi di oggi l’opportunità di domani.
Ci sono momenti in cui passa il treno. E bisogna essere pronti a prenderlo. Perché non ci aspetterà all’infinito. Il compito di un partito come il nostro, in una situazione come quella attuale, è proprio quello di giungere puntuali all’appuntamento con la crisi del berlusconismo.
Bisogna essere all’altezza della situazione. È una questione di messaggio, di identità, ma anche di stile.
Quando il treno passa, non conta in quale ordine ci saliremo sopra. Conta se si sale a bordo o se si resta a terra.
Il nostro non è il partito di un padrone solo.
Non è il partito del capo e nemmeno quello di un leader illuminato.
Il nostro partito è una comunità di persone, di storie, di sensibilità. Ma perché questa ricchezza diventi una forza, occorre che il nostro partito sia anche una comunione di volontà, unite da un progetto condiviso di paese.
L’idea di Italia che vogliamo, alternativa a quella realizzata da Berlusconi, è e deve essere il nostro obiettivo. Il partito e la sua leadership sono solo lo strumento per affrontare la sfida.
In queste settimane e in questi giorni, attorno alla proposta di Pier Luigi Bersani di aprire il cantiere del Nuovo Ulivo si è aperto un dibattito.
In un partito è normale e giusto che questo accada. Ma credo che dividere con false alternative il nostro partito, sarebbe oggi il peggior regalo che si può fare ad un centrodestra in difficoltà seria.
Se vogliamo essere protagonisti dell’alternativa, la prima cosa da fare è investire su noi stessi, sul nostro partito.
Non siamo figli di un Dio minore e abbiamo oltre che il diritto direi anche il dovere di proporre un nostro progetto per il governo del paese.
Questo significa che il Pd possa proporsi come una forza autosufficiente?
Certamente no. Per portare l’Italia fuori dal berlusconismo occorre una strategia articolata: per dividere al massimo il campo altrui e federare nel nostro campo lo schieramento omogeneo più ampio possibile.
Non sono le sigle che compongono una coalizione a unire un elettorato. Ma il progetto di paese che quelle forze condividono.
Con tutte le forze alternative al centrodestra è di questo che dobbiamo parlare.
Senza ignorare, ovviamente, i limiti e i punti deboli che dobbiamo affrontare come Pd. E qui come partito veneto abbiamo una speciale responsabilità.
Da 30 anni a questa parte le novità politiche nazionali vengono incubate al Nord. Perché il futuro del paese sia diverso da quello disegnato da Bossi e Berlusconi, occorre che qualcosa cambi in profondità, qui al Nord, nel nostro rapporto con gli elettori e il territorio.
C’è una difficoltà da recuperare. Perché il Nord, che è la locomotiva produttiva del paese, che è la frontiera più avanzata dei suoi mutamenti sociali, che è l’aggancio dell’Italia al resto d’Europa, non si fida di noi, mentre si fida ancora delle promesse della Lega.
Perciò dobbiamo ascoltare con attenzione e con spirito costruttivo il disagio di chi avverte un limite nella forza della nostra proposta e allo stesso tempo la necessità di uno scatto in avanti: sul piano del linguaggio e delle proposte concrete di governo.
A volte questo campanello d’allarme è risuonato anche nelle parole dei nostri amministratori. Dobbiamo tenerne conto.
Un partito adulto deve affrontare una situazione come questa con maturità.
Significa che se un esponente del nostro partito esplora in forme non ortodosse spazi di riflessione e confronto politico trasversali, com’è capitato con Verso Nord, la sua scelta individuale non può essere demonizzata, né trattata alla stregua di un’intelligenza col nemico.
Allo stesso tempo, maturità significa essere consapevoli che la prospettiva del nostro Partito e di chi vuole continuare a farne parte, per il futuro, può e deve essere quella di diventare protagonista vincente dell’alternativa: il perno del primo polo, non il comprimario di un terzo polo tutto da concretizzare.
Se la casa è troppo stretta la si ingrandisce, se ci sono degli spifferi si tappano. Le fughe individuali verso altri lidi non sono una soluzione.
La crisi del berlusconismo può aprire una fase politica completamente nuova. Che richiederà nuovi schemi per essere affrontata. Ma nella costruzione di questa novità, il Pd deve esserci da protagonista.
È possibile farlo? Sono convinta di sì. È sufficiente attendere la caduta di Berlusconi? Sono altrettanto convinta di no. Ci sono delle responsabilità da assumere. Qui e ora.
Nell’ultimo anno, abbiamo affrontato dei passaggi importanti. Elezioni primarie che hanno confermato un legame forte col nostro popolo.
Una sfida elettorale difficile, dall’esito deludente.
La riorganizzazione del partito e lo sviluppo della sua iniziativa politica ne sono state rallentate. Abbiamo vissuto una situazione di stallo, anche nell’attività degli organismi dirigenti. La situazione politica generale, a livello veneto e nazionale, non ci consente di indugiare più.
Siamo chiamati, e lo dico io per prima, ad uno scatto di responsabilità. Per essere all’altezza della posta in gioco.
Occorre che il gruppo dirigente, che è nato dal voto delle primarie di un anno fa, affronti con maggiore compattezza la sintesi della propria linea politica.
E occorre che gli organismi dirigenti a livello regionale ritrovino concretezza e sostanza operativa. Essere gruppo dirigente non significa avere un titolo o un ruolo. Significa assumersi fino in fondo la responsabilità di essere al servizio di un collettivo più ampio.
Non possiamo più guardarci la punta delle scarpe.
Abbiamo scelto di non essere un partito personale perché non crediamo ad una democrazia personale.
Noi siamo un collettivo e ognuno di noi in ogni luogo deve caricarsi della sua responsabilità, sapere che maneggia una proprietà indivisa.
In questo futuro prossimo, nel futuro che abbiamo qui davanti la gente avrà bisogno di percepire la solidità, l’unità e la forza di chi governerà il Paese. Noi siamo un bel Partito, di donne e uomini liberi che discutono e partecipano; abbiamo con noi tanta gente generosa e onesta che condivide gli ideali e che ha nella testa e nel cuore la voglia di una Italia migliore, più civile, più giusta.
Di un Veneto migliore.
Noi siamo ben più forti delle nostre debolezze.
Per rafforzare l’unità, per sentirci una grande squadra: muoversi assieme, combattere assieme, rimboccarsi le maniche tutti assieme.
Mentre lavoriamo per il progetto, noi ci muoveremo.
Voglio per l’autunno una grande mobilitazione che coinvolga oltre ai nostri militanti e ai nostri circoli tanti e tanti dei cittadini che hanno partecipato un anno fa alle primarie.
Chiedo a tutti un aiuto per trasformare la rabbia, l’insofferenza e l’impazienza che sentiamo intorno a noi in energia positiva. Chiedo a tutti un aiuto per metterci a faccia a faccia con gli italiani bussando e ascoltando.
Oggi pomeriggio parleremo di Statuto e delle proposte del Partito Democratico.
Anche giovedì scorso, davanti al cardinale Scola, Il governatore Zaia a Venezia ha ribadito il succo del nuovo Statuto „Prima i Veneti’, a scanso di equivoci.
È evidente che la Lega deve cominciare a fare i conti tra promesse e fatti. Tra proclami propagandistici e risultati veri. Bandiera, inno veneto, statuto, dialetti, sono specchietti per le allodole, problemi marginali dietro ai quali si vogliono nascondere quelli veri.
Una propaganda che non risponde alle domande del Veneto, degli imprenditori, dei professionisti, che finge di non vedere che la crisi morde e ferisce occupazione e imprese.
Sul nuovo Statuto regionale, il presidente del Veneto si gioca la faccia; è una delle principali promesse fatte in campagna elettorale. Ma con lo Statuto non mangiano né le imprese né i lavoratori.
È meglio che se lo mettano in testa tutti. Tanto più se a partire da questo Statuto si cerca di dividere il Consiglio regionale su questioni risibili invece di fare della nuova carta costituzionale, un’occasione di incontro culturale e di ammodernamento del Veneto, fatti salvi i principi di intrapresa e solidarietà che fanno parte del Dna di questa terra.
Ma questo compito spetta anche a noi.
Perciò, rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci al lavoro.