Verso Nord senza bussola
la Nuova di Venezia — 02 novembre 2010
VENEZIA. Sarà «Verso Nord» l’alternativa veneta al Pd, il porto di approdo di chi ha deciso di andarsene dal partito? Chi conosce la politica veneta da anni, non da ieri, è scettico. E non solo per i precedenti rapidamente falliti del «partito dei sindaci» o del movimento del Nordest. Non tutti i delusi dal Pd condividono la trasformazione della nuova iniziativa politica in partito. E sul fronte opposto, c’è davvero chi pensa che l’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan sia disposto a divorziare? Divorziare da Berlusconi nei fatti, e non a parole? Né appare in grado di dare una svolta radicale la tanto ventilata nascita di un terzo polo a livello nazionale: i politologi ne valutano la consistenza in un 10-15 per cento al massimo, dunque non in grado di far saltare il malconcio bipolarismo attuale. Almeno fino a che il Cavaliere non uscirà di scena.
C’è piuttosto ancora chi (e non sono pochi) intende lavorare dall’interno del Pd veneto per restituirlo all’idea originaria. Come Paolo Giaretta (nella foto), ex segretario del partito, tra i firmatari del documento di Veltroni. Che esorta a non seppellire le critiche, anche se aspre, ma ad affrontare un serio autoesame:
«Quando un partito comincia ad avere paura delle idee, a fare
la caricatura delle opinioni altrui, a evocare scenari scissionistici che non
esistono piuttosto che entrare nel merito delle proposte, vuol dire che non è in
buona salute. Facciamo un buon servizio al partito tacendo, e lasciando che
subisca questa deriva?».
E chiama in causa il severo giudizio di «Famiglia Cristiana» lì dove sostiene che la crisi del Pd è più grave di quella del Pdl, e che il partito è «incapace di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta dei valori di fondo su cui cotruire un mondo migliore». Ci sono nostalgie del Pci anni Cinquanta che vanno abbandonate, sostiene Giaretta; il quale sottolinea che «ho lavorato troppi anni per costruire un incontro tra i riformismi del Paese, per assistere oggi silente al rischio della sconfessione di quel progetto».
Un progetto che con Veltroni aveva ottenuto il 34 per cento dei voti, e che ora è franato al 26. Sulle opinioni si può discutere, i numeri fanno testo. Cosa non ha funzionato nel Partito Democratico? Spiega dall’interno una voce critica come quella di Arturo Parisi: «In questi anni ci siamo dedicati alle conte, ci siamo contati molte volte, abbiamo contato un numero sempre maggiore di persone, abbiamo elaborato tecniche raffinate di conta. Quello che non sappiamo è che cosa abbiamo contato». E aggiunge: «Il nostre problema non sono né Veltroni né Franceschini né Bersani, e neppure D’Alema. Il problema è che in questa disgregazione in questa confusione, quella di cui il partito non dispone è una bussola. Da ciò la mia ossessiva ripetizione: dite pure con chi state, ma prima ancora che cosa volete».
Dall’esterno, un politologo autorevole come Luca Ricolfi parla di una crisi strutturale dei due maggiori soggetti politici, costituiti da appena due anni: «Se Pdl e Pd scricchiolano, non è solo perché i loro dirigenti sono litigiosi e irresponsabili. La ragione vera è che, per quanto appena nati, sono già due partiti vecchi».
C’è ancora una chance per il Pd di evitare di seguire le orme del Pdl, con una rottura dall’interno? Difficile dirlo. Viene in mente una vecchia battuta di Elio Armano, già segretario veneto del Pds, nei mesi in cui il Pd era in cantiere: «Un’idea così bella, che quasi quasi è meglio non prenderle la tessera». Il sospetto è che finisca per rivelarsi molto più (e peggio) di una battuta. (2. fine) Francesco Jori
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Se l'addio di Bottacin scatena una slavina
la Nuova di Venezia — 19 ottobre 2010
VENEZIA. E se proprio dal Veneto si mettesse in moto la slavina destinata a frantumare il Pd, com’è accaduto invece da Roma per il Pdl? L’addio al partito di Diego Bottacin, da anni tra i protagonisti principali del centrosinistra regionale, è tutt’altro che un fatto isolato. E i nomi destinati con molta probabilità a seguirlo, da Maurizio Fistarol ad Achille Variati, non saranno a loro volta meteore. Nella base del partito matura da mesi un malumore crescente, acuito dalla secca dichiarazione con cui il segretario veneto Rosanna Filippin ha liquidato l’uscita di Bottacin: non condivido neanche una virgola della sua analisi.
Ma come altro spiegare allora dei dati incontrovertibili? Un Pd che ha perso quasi metà del suo elettorato, che è inchiodato a un misero 20 per cento, che in quattro province su sette è al di sotto della media regionale. Che ha puntato per le regionali su un candidato il quale sulla carta dovrebbe essere il capo dell’opposizione e che è relegato in una stanzetta dove fa malinconicamente gruppo a sé, di fatto desaparecido dal giorno dopo il voto. Che si sgretola dall’interno, tra dimissioni dalle cariche e abbandoni eccellenti. Che alle politiche di due anni fa si è fatto imporre un capolista già andato per conto proprio, e poi impegnato nelle serenate ad Arcore per cercare di ottenere un posto da ministro. Non è solo un malessere interno, certo. Pesa soprattutto la questione di respiro nazionale aperta dal documento di Veltroni, che si riflette anche in Veneto. E che non si può liquidare con una sorta di contrapposizione tra ex Ds ed ex Margherita, anzi: il malessere taglia in due i vecchi partiti. Con una parte minoritaria rappresentata dagli ulivisti, i quali contestano alla maggioranza di voler un po’ alla volta fare del Pd un partito socialdemocratico, liquidando così l’idea originaria della nuova formazione politica. Finora la spaccatura è stata evitata, ma fino a quando? Basta scorrere un paio di passaggi del cosiddetto documento dei quarantenni, quelli definiti «i giovani turchi»: il partito versa in una condizione di «rachitismo organizzativo, incertezza identitaria e ingovernabilità politica»; ci sono «dirigenti che parlano sempre più spesso come divi di Hollywood in tour promozionale, capaci di ripetere soltanto quanto amino l’Italia, le sue bellezze artistiche e i suoi struggenti paesaggi».
L’assemblea nazionale di inizio ottobre ha segnato una tregua, non certo la pace. Perché, come ha detto proprio in quell’occasione Dario Franceschini, quando ci si ritrova tutti assieme si inneggia all’unità e dal giorno dopo si ricomincia a litigare e a dividersi. Ma ciò che sta accadendo in Veneto non si può liquidare con un semplice litigio: dietro c’è un calo di consensi di oltre sei punti in soli due anni, lasciando sul terreno qualcosa come oltre 350mila voti, passando da 810mila a 450mila. Con una gestione unitaria ormai di pura facciata, cui hanno dato il primo colpo (non sarà l’ultimo) le dimissioni di Andrea Causin dalla vice segreteria regionale. Dopo la Calabria, il Veneto è l’area che ha presentato il peggior risultato alle ultime elezioni; aggravando così una condizione di cronica debolezza che non si può certo liquidare col «prego si accomodi» rivolto a chi se ne va. E che non si risolve certo limitandosi a cambiare questo o quel dirigente, segretario incluso: è il partito ad avere bisogno di una cura radicale.
(1 - continua) - Francesco Jori
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