Le reazioni scomposte ai 76
Paolo Giaretta
Nel Pd c’è una questione antropologica prima che politica? Mi sembra di sì a vedere le reazioni scomposte al documento dei 76, prima che fossero corrette dalle sagge parole del segretario Bersani in Direzione.
Nei partiti che ho attraversato prima di partecipare alla costruzione del Pd – dalla Dc, al Ppi, alla Margherita – la reazione sarebbe stata diversa, del tipo: “il segretario considera il documento un utile contributo al dibattito che sarà oggetto di attento esame negli organi del partito”. Solo ipocrisia? No, l’adozione di uno stile.
Qui invece si è sentito parlare di favore all’avversario, di bomba atomica, di vigliaccheria, espressioni condite con la solita accusa (un classico nella storia della sinistra) di intenzioni scissionistiche. Insomma: il Partito (con la P maiuscola) ha parlato, il congresso è stato fatto e non c’è null’altro da discutere. Devo dire che anche le preoccupazioni che mi sono state espresse nel mio territorio non erano critiche di merito (quasi nessuno aveva letto il documento). Vi era riflesso piuttosto un giustificato timore (visti i commenti dei dirigenti) di pericoli di divisioni, ma soprattutto l’idea che il dibattito pubblico non faccia bene al partito. Insomma sembrerebbe che il centralismo democratico sia vivo e lotti ancora tra di noi.
Il bello è che piuttosto dovremmo prendere sul serio il documento dei “giovani turchi”, in realtà i cinque più diretti collaboratori del segretario.
Un documento importante e non occasionale. Proprio in questo documento si parla di un Pd affetto «da rachitismo organizzativo, incertezza identitaria, ingovernabilità politica». Alla faccia. Se l’avesse detto Fioroni…
Altrettanto significativo è il livore che si è sentito nei confronti di Veltroni. Una specie di liberazione. Finalmente si può dire che l’idea veltroniana di destrutturare e modernizzare il Partito (sempre con la P maiuscola) sarebbe la causa di tutti i mali. Una parentesi da chiudere per sempre, e poco importa se il Pd è figlio legittimo della stagione dell’Ulivo e non del continuismo comunista. Ricorro ancora al citato documento dei giovani turchi, dove si descrive così il discorso di Veltroni al Lingotto: «summa teorica di una eclettica visione dell’Italia, mutuata da tutte le narrazioni dominate nel ristretto circuito delle nostre classi dirigenti». Critica legittima naturalmente, come è legittima la critica di Rosy Bindi, che del resto alle primarie si presentò in alternativa, con un’altra piattaforma. Resta il fatto tuttavia: con l’eclettica visione di Veltroni, sanzionata dal voto di milioni di cittadini alle primarie, prendemmo il 34 per cento dei voti e con la robusta visione organizzativistica, di un laburismo archeologico pre Blair di questi dirigenti, siamo in un anno passati da un 41 per cento di italiani che avevano molta o abbastanza fiducia del Pd ad un misero 26 per cento.
Dunque la questione antropologica ci riporta alla politica. Rimboccarsi le maniche certo. È una bella espressione. Ma rimboccandosi le maniche vediamo un po’ di vedere se la strada è giusta. Perché in un paese piegato da una crisi che è etica, economica, di prospettiva, che assiste attonito all’indecoroso spettacolo offerto dalla destra, ci sarebbe da aspettarci che gli elettori si guardino attorno, ma da noi non guardano. Lavoriamo per la Ditta dice Bersani, giusto. Ma quando i clienti sono in calo cosa fa una ditta? Può cambiare il management. Questo l’abbiamo già fatto e sarebbe un errore cambiarlo prima del tempo. Si può aggiornare il prodotto e fare un packaging più accattivante. L’unica cosa che non si può fare è rimettere sul mercato i vecchi modelli e prendersela con i clienti perché non li comprano.
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